20190608 Il Càlàmito basso

Leave a comment
fuffa

20190608 Il Càlàmito basso

Giorni fa rufolando nei raccoglitori sui ripiani della mia libreria ho trovato una busta, conteneva fogli di carta carbone.

Combinazione tempo fa ne cercavo uno perché volevo trasferire un disegno su una tavoletta di legno per pirografarlo. Ero convinto di averne qualcuno ma non sono stato capace di trovarlo. Il disegno l’ho fatto a mano ed è venuto sufficientemente bene per lo scopo che avevo. Il risultato della pirografia non mi ha invece soddisfatto, ma non è questo ora il punto.

Guardando quei fogli di carta carbone mi sono chiesto quanti, dei giovani di adesso, ne conoscesse l’esistenza e la funzione. Perché quella è una tecnologia obsoleta, superata, non più necessaria.

Eppure ai suoi tempi la carta carbone ha risposto brillantemente ad una necessità. Non c’erano fotocopiatrici, non c’erano files di Word ma c’era lo stesso il bisogno di fare velocemente delle copie.

Riesco ad immaginare l’impegno e l’ingegno profuso da tecnici di allora per migliorare un prodotto che aveva un mercato enorme, quello delle copie. Immagino, ma dico cose a caso, la tenuta dell’inchiostro sul foglio, il valutare quale fosse il corretto spessore del foglio e così via. Molte aziende del settore si facevano concorrenza per offrire alla clientela prodotti sempre più mirati. Ricordo che senz’altro c’erano carta carbone nera, blu ed anche rossa.

Poi una nuova tecnologia, la fotocopiatrice, ha completamente sovvertito il settore, nuovi tecnici si sono dedicati a migliorarle e la carta carbone è letteralmente sparita dalle cartolerie. Si è persa così la conoscenza di una tecnologia ed anche la memoria dell’ingegno impiegato per trovare quella soluzione. È così anche ai giorni nostri, magari i computer quantici sostituiranno la tecnologia dei computer attuali, tecnologia che quindi si perderà come noi abbiamo perso la conoscenza di tecnologie che ci hanno preceduto e che sono state la risposta ottimale atta a risolvere problemi di quei tempi.

Un esempio che mi viene in mente è il meccanismo chiamato “Càlàmito basso”, impiegato nella tecnologia delle locomotive a vapore e che, con una soluzione tecnica che sfiorava la genialità, risolveva un grosso problema di stabilità delle locomotive di allora.

Eppure quasi nessuno ma già ai miei tempi ne sospettava nemmeno l’esistenza e la funzione.

Una cosa curiosa è che il meccanismo antagonista del càlàmito basso e che svolgeva la funzione per sua natura opposta, aveva un suo nome specifico, ora non ricordo più quale, ma sicuramente non era “càlàmito alto” pur se per logica di funzionamento, posizione all’interno della locomotiva e altre considerazioni lo avrebbe dovuto avere.

Io ho immaginato che il motivo principale sia stato questo: in fase di progettazione i due meccanismi, così necessari l’uno all’altro per il corretto funzionamento reciproco per il loro scopo nella locomotiva, si fossero chiamati appunto “càlàmito alto” e “càlàmito” basso.

Diciamo che il càlàmito basso, con la sua forma che ricorda quella della mezzaluna, è nato già perfetto, non ha avuto bisogno di sostanziali miglioramenti. Quell’altro meccanismo, quello antagonista, ha avuto una genesi più modesta, alla “intanto facciamolo così”, ed ha avuto nel tempo e nel miglioramento della tecnologia una ottimizzazione della sua funzione che adesso rispondeva anche ad altre necessità. Ho ipotizzato quindi che per questo motivo di sostanziale modificazione strutturale abbia iniziato ad essere indicato con un nome differente mentre il càlàmito basso abbia mantenuto il suo  benché ormai la specificazione non fosse più necessaria.

Dico la verità ho fatto delle ricerche in internet ma non ho trovato riscontri a questa mia teoria.

Comunque sia, il paragone concettuale che faccio tra la tecnologia divenuta obsoleta del càlàmito basso e quella divenuta altrettanto obsoleta della carta carbone resta valido per spiegare il concetto di “oblio di una tecnologia” che era poi lo scopo del mio ragionamento.

Non inficia il senso del mio ragionamento il fatto che il “càlàmito basso” io non sappia proprio cosa sia, è un nome che mi sono inventato sul momento anche perché come funzionassero le locomotive a vapore io non ne ho proprio idea.

20190603 L’ultimo ebreo di Vinnitsa

Leave a comment
fuffa

Lunedì 06 giugno 2019 L’ultimo ebreo di Vinnitsa

Due piccole cose che mi sono capitate stamattina.

Prima piccola cosa

Stavo lì al tavolino del bar a prendere il mio caffè e scimmiottare di scrivere qualcosa.

Riporto pari pari la riflessione che stavo scrivendo:

” […] Praticamente in tutti i precedenti Qnn ho scritto cosa vorrei e perché, ma questo, ovviamente, non la fa realizzare motu proprio. Di sicuro non ho chiaro quale sia il mio vero obiettivo. Non lo so per certo descrivere compiutamente. Mi rendo ben conto che giorno per giorno i giorni stanno passando.”

Le frasi successive sarebbero state una riflessione sulla morte; non dico che la loro estensione era già formulata nella mia mente ma avrei parlato di quello.

Ed invece appena messo il punto alla frase e pronto per iniziare la successiva ho avuto un’intuizione, ho intuito un legame tra “giorno per giorno i giorni stanno passando” e l’immagine che mi ha colpito anni fa e che è sempre presente nella mia mente: la foto conosciuta come “L’ultimo Ebreo di Vinnitsa”.

L’ultimo giorno di ognuno di noi ha sempre un ultimo istante ed in quella foto c’è l’ultimo istante di un uomo che ha mosso passi su questa terra.

Perché che sia una foto di morte è evidente in sé.

Mi è scattata una molla interiore, mi sono sentito pronto a descrivere tutte le riflessioni che in questi anni quella foto mi ha sempre mosso. Ne ho così tante, alcune anche “belline”, vorrei dire con pudore quasi profonde.

Per l’amor di Dio, non è che saprei donare al mondo un nuovo contributo di pensiero, Stringi stringi quella foto dice già tutto, non c’è da aggiungere nulla e, non è per farmene un vanto, le mie osservazioni risulterebbero irrilevanti.

Ma avrei raccontato quello che a me e per me questa foto ha suscitato, i perché che ha mosso, i percorsi che i tentativi di risposta hanno attraversato, dove ho sostato con la mente.

Sarei partito da considerazioni sull’inquadratura, la direzione dello sguardo di quell’ebreo del quale non è riportato nemmeno il nome. Di cosa sembra stiano facendo le persone che sono alle sue spalle, (c’è un soldato, appena alla destra dell’ebreo o a sinistra guardando l’ebreo, che è l’unica cosa smossa della foto, sembra che stia saltando). Di cosa sembrino intenti a guardare uno per uno quei militari e come sembri giovane quello che impugna la pistola.

E molto molto altro ancora. Per esempio che quella foto È la condensazione in  una immagine de “La banalità del male[1] a volte molto più di tante terribili descrizioni sui libri.

E molto, molto altro ancora.

Sì, ‘sta volta avrei scritto un pezzo su quella foto.

Allora ho preso la mia robina, ho pagato il caffè e me ne sono venuto a casa per scrivere su un foglio word.

Seconda piccola cosa

A casa mi sono messo al computer e come prima cosa ho cercato in internet la foto per stamparla. Quando una foto mi colpisce ho allora spesso il bisogno di guardarla, di fissarla, osservarla, vederla, averla lì per riacchiappare i fili di pensiero che mi ha lanciato la prima volta che l’ho vista.

Ho sempre 3 o 4 pagine aperte nel browser, una è Tumblr, un blog di blog dove trovi principalmente immagini, filmati e anche qualche testo. Un blog al quale mi sono iscritto posta via via delle citazioni. Qualcuna è una simpatica boutade che spesso ignominiosamente riciclo (ma non la spaccio mai come farina del mio sacco!), altre lasciano il tempo che trovano, altre ancora me le raccolgo in un file perché sono proprio belle.

Ho stampato la foto che fortunatamente è già di suo in bianco e nero.

Ho dichiarato guerra da un tre mesi a questa parte alle stampanti a colori per via del prezzo assurdo delle loro cartucce di ricambio, così ho sostituito l’ultima stampante a colori che mi è morta con una nuova solo B/N, così, solo per tigna. (Mi spiegate perché, accidenti a loro ed alla Epson in particolare, se uno deve stampare un banale testo in bianco e nero ma ha terminato il colore giallo non può stampare?)

Ho dato un’occhiata veloce a Tumblr, scorrendo le immagine. Mi sono imbattuto in una di quelle di citazioni.

Recitava: “A misura che avanziamo nel tragico, il senso del tragico diminuisce. – Guido Ceronetti[2]

Ora, io non credo assolutamente alle coincidenze, il caso è il caso e basta.

Però che quando in un qualche modo  ci abituiamo al male (voglio dire, quello in sorte ad altri…) allora il male non ci appare poi proprio tutto quel gran che di male, ecco, quello lo avrei scritto.

L’ho trovato già scritto in una bellissima frase concisa.

Cazzo vuoi che scriva io adesso?

 

Allora ho copiato la frase, l’ho incollata ai piedi dell’immagine e ho ristampato la foto.

Cosa ne farò sotto fatti miei.

Ma lo considero il mio piccolo cenno del capo come forma di rispetto, sai quello si fa quando passa un feretro al morto e ai suoi parenti, tanto non ci sono parole da dire e quelle che si dicono sono inutili.

Arrivederci, ultimo ebreo di Vinnitsa.

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/La_banalità_del_male

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Guido_Ceronetti

20190106 Quanto mi serve per sentirmi a mio agio (prima parte)

Leave a comment
fuffa

1° Giugno 2019 h 10:06 dalla Mariangela, secondo caffè.

Colazione per una serie di motivi stamattina l’abbiamo fatta al bar, da ZaV perché ha le paste vegane per Luana. Siamo poi venuti qui perché la mattina è bellissima e qui c’è il prato per far stare un po’ in Grazia di Dio la Rha.

Cose fatte ieri:

Ho dettato e corretto il pezzo e l’ho postato sul blog. Ho postato anche quello sulla incongruità degli alberi, mi piaceva averlo anche qui.

Ho riempito le stilografiche, questa con l’inchiostro del boccino nuovo. Luana ha trovato riposta in una qualche scatola della sua libreria una Pelikan uguale uguale a questa che sto usando, con la ricarica a stantuffo a vite; dice che gliel’ho regalata una volta che sono stato a Roma; Ne ho parlato proprio qualche giorno fa sicché ne devo aver comprato due, ho adesso una qualche reminescenza del fatto. Gliel’ho caricata con lo stesso inchiostro marrone nuovo e adesso la tiene sulla sua scrivania. Giorni fa mi volevo appuntare che vorrei fare un portapenne stilografiche con dei listelli di legno, lo faccio adesso. Dico, di prendere l’appunto. Ora leggo un po’, chissà se mi viene l’ispirazione per un altro pezzo.

Alle 23 e 50, ho controllato l’ora, ho fumato l’ultima sigaretta della mia vita e poi sono andato a letto. Anche stavolta non ho conservato la cicca come souvenir dell’ultima sigaretta fumata.

__ 15:47 Mariangela

Quanto mi serve per sentirmi a mio agio da un paio di anni a questa parte sta tutto nel mio borsello. Anche lui mi sono abituato a portarlo da un paio di anni abbondanti , da quando ho preso l’abitudine di tenere una specie di diario giornaliero. Una di queste volte spiegherò perché. In realtà l’attuale borsello, di vera pelle color marrone, ha sostituito quello in tela plastificata o plastica telata che fosse che avevo cominciato a usare da quando ho bisogno di avere sempre appresso un quaderno e delle penne. Era un omaggio che davano anni fa alla Feltrinelli e non l’ho mai usato perché non ho mai potuto sopportare i borselli da uomo. Poi uno cambia idea e oltretutto mi piaceva. Per il mio onomastico, e quindi il 7 giugno 2017, Luana mi ha regalato questo qui, tra pochissimo ha quindi due anni. Bellino ma non è che mi sia piaciuto all’istante. Innanzi tutto è molto più contenuto e ci sta tanta meno roba. Poi pian piano mi ci sono abituato ed anzi, ora proprio mi piace. Ho imparato anche a metterci meno roba, così non porto più a spasso un’incudine a forma di borsello. È diventato un accessorio d’abbigliamento per me vitale come il fazzoletto nella tasca anteriore sinistra dei pantaloni e il portafoglio in quella posteriore a destra. Lui lo porto a tracolla, spalla sinistra chiappa destra.

Oggi è la prima vera giornata di sole di questa stramba primavera. Siamo tornati qui ma senza la Rha. Nel pomeriggio c’è sempre meno confusione ed è piacevolissimo stare al tavolino mezzo all’ombra degli aceri di questo prato. C’è una bella brezza calda che non infastidisce, ci si sta da papi.

Come sempre, Luana legge, io alterno la scrittura principalmente di fuffa con la lettura di un libro cartaceo oppure di uno sull’e_reader.

Il borsello contiene:

1)         Il Qnn dove nn è la cifra specificativa del suo numero di matricola. L’attuale è il Q11 ed è quasi finito. Da domani bisogna che mi ricordi di mettere nel borsello anche il Q12 per non avere eventuali buchi di scrittura. Devo però scegliere quale sarà dai numerosi che ho di riserva a casa. Sono tutti quaderni di formato A5 perché è il formato a me più congeniale per scriverci su e per stare bene dentro al borsello. In inverno un A5 potrebbe stare anche nel tascone del giubbotto ma dopo si presenterebbe il problema di dove mettere tutte le altre cose che pian piano mi sono diventate necessarie in questa mia attività di “scrivente” (perché scrittore è un’accezione un po’ troppo altisonante. Penso che Wikipedia la definirebbe “voce disambigua”).

Da Q08[1] ho cominciato ad usare anche i quaderni con le pagine completamente bianche, senza righe di sorta. Li sto alternando a quelli con le righe perché devo finire quest’ultimi dei quali ne ho una discreta scorta. Uno dei primi con i fogli bianchi era ad anelli e lo comprai anni fa all’Ikea credo a Firenze.[2] Mi piacque perché aveva un foglio di plastica bianca “rigidina” con delle righe tracciate. Lo mettevi sotto al foglio sul quale stavi scrivendo e seguivi le righe in trasparenza. Quando poi usandolo mi piacque il metodo, non ne ho più trovato da acquistarne. Il foglio di plastica di quel quaderno che non ho mai finito ma messo in disuso (chissà perché?), l’ho recuperato e usato per Q08 e poi l’ho definitivamente perso. Nel frattempo però in Ikea sono arrivati dei quaderni appena più stretti di un A5, non sono ad anelli, li vendono in confezioni da 3 pezzi ed ogni quaderno ha un foglio di plastica a righe ed uno a quadretti. Q09 è uno di questi quaderni Ikea e Q11 è stato scritto utilizzando il suo foglio di plastica. Q10 è un quaderno A5 con le righe standard e così sarà Q12 perché, come mi ripeto, ne ho una discreta scorta e voglio finirli.

Due sono i motivi principali perché adesso preferisco i quaderni con fogli senza righe:

a) Se faccio un disegno mi piace di più su un foglio bianco piuttosto che su un foglio con le righe. Se per il disegno ho bisogno di tirare linee dritte, alla bisogna va bene il bordo della copertina di QdB (vedi più avanti) oppure il bordo di una matita o di una qualsiasi altra cosa che sia dritta, perfino un righello. Difatti dopo un po’ mi sono dotato di un righello più corto del solito e che sia molto flessibile perché se no sforma il borsello oppure si spezza. Infatti per un po’ ho avuto in dotazione due spezzoni molto meno pratici di un righello intero ma tutto sommato, ora che ci penso, più utili di questo che li ha sostituiti e che mi accorgo adesso proprio sul momento non essere in nessuna tasca del borsello; lo stavo cercando per essere preciso sulla sua lunghezza ma non posso farlo. Direi comunque dai 12 ai 14 cm.

b) Le righe incise sul foglio di plastica che fa da dima o maschera che dir si voglia, sono piacevolmente spaziate più strette delle righe standard. Mi sono reso conto che per poter star dentro allo spazio tra queste righe sono obbligato a scrivere più lentamente migliorando tantissimo la mia calligrafia ma soprattutto la sua leggibilità. Inoltre lo scrivere lentamente mi dà modo di formulare meglio e direi in un buon italiano quello che volevo scrivere. Scrivere lentamente mi fa però dimenticare che cazzo volevo scrivere subito dopo. Le idee si accavallano infatti alla mente e pretendono immediato riconoscimento; se non lo ottengono se ne vanno schifate. A volte si ritentano poco dopo, altre volte ritornano a far capolino in un momento di calma alcuni giorni no. Certe non tornano più. Ho certezza d’avere a volte mentalmente esclamato “Cazzo! Questa è un’idea veramente geniale, la devo scrivere immediatamente dopo ‘sta roba se no la perdo!”. Indovinate un po’…[3]

Su un quaderno a righe standard tendo a scrivere molto più velocemente a scapito però della calligrafia e di conseguenza della decifrabilità dello scritto. Riesco probabilmente però a fissare su carta qualche idea in più tra quelle che si affastellano alla mente. Alcune di queste idee in più, quando rileggo in seguito quanto ho scritto, svaniscono al mondo dell’intellegibile tra i marosi della mia calligrafia che si intorcina in picchi e valli. Avessi studiato da medico all’università sarei stato naturalmente dotato per la redazione delle ricette. Riesco a riconoscere le ‘t’, le ‘q’, le ‘f’. Invece ‘i’,’u’,’m’,’n’ e spesso le ‘v’ non è che siano tra loro simili, sono uguali: ‘a’ ‘e’ ed anche le ‘o’ si scambiano tra loro, i puntini delle ‘i’ servono a segnalare che da qualche parte sotto di loro ma certo non sulla loro verticale ci sono appunto delle ‘i’. Insomma devo cercare di capire che cosa ho scritto e molte parole o brevi frasi le comprendo dal contesto e non certamente dalla mia grafia. Metti caso questi miei quaderni passino indenni alcuni secoli e vengano riscoperti da uno studioso di Storia a questo punto Antica; il suo lavoro di trascrizione di una lingua ormai profondamente cambiata, conterrebbe tantissimi simboli ‘†’ che sta per ” crux desperationis” o crux filologica nella forma professionale oppure “Chissà che cazzo aveva scritto!” se è uno studioso intellettualmente onesto.

Per esempio adesso che mi sto divertendo a scrivere questo pezzo, la foga comunicativa riesce a farmi scrivere ben illeggibile ma su righe spaziate strette.

Proprio in questo momento l’applicazione “Quit smoking” sul mio cellulare mi ha avvisato che sono arrivato a 10 sigarette non fumate. C’è andato vicino, in realtà sono solo 5. Alle 11:50 ho interrotto la mia astensione dal fumo…

Disattivo l’applicazione.

[1] Per curiosità sono andato a controllare la data di inizio di Q01: il 16 giugno 2016. Sono quindi quasi 3 anni che faccio lo scrivente di professione, accidenti come passa il tempo!. D’ora in avanti nei prossimi scritti dirò “da 3 anni a questa parte”. In realtà è ancora prima che ho iniziato, però era principalmente su quaderni A4 e non era un’attività “codificata” e sicuramente molto estemporanea. Anche in passato ho usato molti A5 che fungevano più da block-notes che altro. Tutti questi quaderni li conservo in uno scaffale della mia libreria. La scelta definitiva del formato A5 si è formata proprio per la trasportabilità del supporto di memoria.

[2] Ho controllato: messo in servizio il 12/09/2011 h 7:30 del mattino però non c’è la data di quando e dove e l’ho preso sulla seconda di copertina. È una cosa che faccio da pochi anni.

[3] L’abitudine di avere un blocco notes sempre in tasca l’ho dovuta prendere sul lavoro per fissare immediatamente la cosa che mi era venuta in mente in quel momento, momento che in un ristorante e all’ora di punta è sempre e assolutamente inopportuno. Ma foglio vuole penna e se la penna l’hai posata un attimo da qualche altra parte ecco che l’idea è persa. Allora mi comprai un registratore digitale, uno di quelli piccolini che puoi tenere in tasca. Stavo transitando in cucina a prendere chissà cosa, mi viene in mente una cosa importante che va fissata subito. Cerco il registratore ma in tasca non ce l’ho, realizzo che l’ho usato qualche minuto prima e lasciato sulla scrivania in ufficio. Mi fiondo allora in ufficio, raggiungo il registratore, lo accendo e registro… una accorata e sentita bestemmia perché avevo dimenticato qual’era la cosa importante da ricordare.

20190531 il senso pratico non è l’elemento dominante

Leave a comment
fuffa

31 maggio 2019. Domani è il primo di giugno. Come da un paio di annetti a questa parte il primo di ogni mese smetto definitivamente di fumare.

Stamattina da ZaV mi sono appuntato una frase del libro che sto leggendo sul blocchetto rosso degli appunti; che sia rosso è un caso, non è qualificativo, è semplicemente un blocchetto per gli appunti al volo con la copertina rossa. Il libro è “L’antica arte di trovare la strada” e a pagina 154 mi sono soffermato su:

Sia il calendario ebraico sia quello islamico sono lunari e, come in tutte le materie religiose, il senso pratico non è l’elemento dominante“.

È una bella immagine: il senso pratico non è l’elemento dominante.

Da qualche parte ho letto che un’ipotesi del formarsi delle religioni è che siano un modo per pensare la stessa cosa tutti assieme, il che aumenta la coesione sociale; un insieme di norme, più o meno espresse e catalogate, che facilitano la definizione del proprio posto in seno alla comunità.

Non mi sembra campata in aria come ipotesi.

Benché molto ma molto a posteriori si riconosca l’apporto positivo di punti di vista diversi, nell’immediato li percepiamo come fastidiosi intralci allo status quo. Quando gli effetti di una rivoluzione di pensiero decantano e rimpiazzano il ” vecchio” status quo diventando quello nuovo (ma mi sa non percepito sul momento come tale) diventa lo status “naturale” delle cose e quindi non messo in discussione fino al prossimo sobbalzo. La novità che viene dall’esterno e che porta “diversità” mi fa venire in mente l’osservazione sui topi in laboratorio (peraltro rilevabile nella “normale” vita umana ma forse meno facile da descrivere o parlarne). Se in una comunità di topolini si introduce un topolino esterno c’è sempre una topolina che ne è attratta. Questo porta ad un rimescolamento dei geni e di inconsapevole beneficio per la specie, inconsapevole intendo per gli individui; solo che, immedesimandomi nei topolini della comunità, immagino che lì per lì sul subito rompa un po’ i coglioni. Questo un po’ più in grande succede con tutti i flussi migratori sicché è anche di attualità in questo momento. In realtà flussi migratori sono sempre avvenuti in passato senza soluzione di continuità, semplicemente non era percepito a livello globale ma solo locale. Questo accade anche oggi, non è che abbiamo percezione di quello che avviene in un posto sperduto nel mondo se non sale alla ribalta ma siamo comunque consapevoli di quello che ci avviene davanti all’uscio di casa.

Interessante è anche il concetto di salad mix, che sostituisce la narrazione di melting pot. Mia personale impressione dettata dalla pancia è che però il salad mix, che senza dubbio crea molte più “possibilità”, sia comunque una anticamera che anticipa una inevitabile omogeneizzazione la quale, vista dall’alto, rende più coesa la situazione ma anche più inevitabilmente statica. Se posso azzardare un esempio che mi viene ora al volo, lo stato finale di un mix di acqua sabbia pietrisco e cemento è un composto statico e immutabile. Uno stato che non è flessibile regge bene i piccoli sommovimenti ma alla fine si sgretola sotto la spinta della loro somma. A grandi linee succede così per esempio nei terremoti e la saggezza popolare ci ricorda che “gutta scavat lapidem” ed anche che “l’acqua cheta frana i ponti”. A mente fredda che spesso si consegue con il senno del poi, sarebbe meglio convogliare i cambiamenti piuttosto che contrastarli.

Non c’entra un cazzo ma è quello che sta succedendo adesso, sono le 11:03: al tavolino di fronte a me a questo bar sull’Aurelia, ci sono dei personaggi parecchio addentro al mondo del calcio, un paio li conosco di persona, che stanno commentando l’attuale situazione delle squadre soprattutto in funzione del prossimo campionato. Uno è un ex giocatore di serie C poi direttore sportivo di una squadra di serie A, uno è un allenatore adesso in serie C, degli altri mi par di capire uno sia un procuratore. Io, che di calcio non intendo orgogliosamente nulla, me ne sto a guardarli di sottecchi ed ascolticchiare come un apprendista sociologo, stupendomi come su una cosa così vuota si sia costruito un consistente castello di infrastrutture. È un mondo autoreferenziale che ha però ricaduta sul mondo reale. È questo un piccolissimo esempio di come si possa dare consistenza al nulla: viviamo un mondo di convenzioni.

Un bellissimo ed in parte doloroso esempio, doloroso per un bambino su 10 anni, l’ho imparato a quell’età ai giardinetti del Priamar a Savona. Siamo alla fine degli anni ’60, forse il ’68 o il ’69. I miei interessi vertevano allora sui soldatini, il Corriere dei Piccoli e le biglie di vetro.

Quando mia madre mi portava ai giardinetti facevo comunella con gli altri bambini e giocavamo a biglie. Una breve descrizione:

Si giocava in gruppi da due a n partecipanti ognuno con la propria biglia di vetro e relativo sacchettino con la scorta ed il bottino. Solo quelle di vetro, quelle di plastica con l’effigie dei corridori servivano solo per le gare su pista sulla sabbia delle spiagge. Si faceva una piccola buca per terra ai piedi magari di un albero e poi ci si disponeva ad una certa distanza; a turno si lanciava la propria biglia cercando di avvicinarsi il più possibile alla buca. Mi sembra di ricordare che poi quello che ci era andato più vicino tirava per primo e dava un cicchetto  alla propria biglia con l’obiettivo di infilarla in buca. Il primo che ci riusciva diventava cacciatore e continuava a tirare fino ad errore dando la caccia a tutte le altre biglie che erano solo possibili prede finché non avessero raggiunto anche loro la buca. Il cacciatore prendeva la sua biglia in una mano a pugno mettendola nell’incavo creato dal pollice che si infila nell’indice e che poi scattando l’avrebbe fatta schizzare verso la preda; con l’altra mano creava un semicerchio con il pollice che faceva perno sul punto dove si era fermata alla sua biglia e come raggio la punta del mignolo esteso. La mano che reggeva la biglia si poggiava su questo compasso e la verticale della biglia doveva essere all’interno del semicerchio. Certo, quelli con le mani belle grandi e le dita ben estensibili erano avvantaggiati ma quelle erano le regole; avevamo già imparato che alcuni di noi erano più alti degli altri, alcuni più agili o più forti e alcuni avevano appunto una mano avvantaggiata. Il cacciatore schizzava la sua biglia e tutte le biglie che colpiva diventava suo bottino. Quando sbagliava perdeva il turno e cacciatore diventava il secondo che era arrivato alla buca. Le regole erano chiare, non mi pare di ricordare ci fossero grandi discussioni. Gli ex proprietari delle biglie uscivano momentaneamente dal gioco che terminava quando un cacciatore prendeva l’ultima preda. Cominciava allora un nuovo gioco e chi aveva perso si giocava una delle biglie della propria scorta, chi aveva vinto pescava dal bottino. Io a volte tornavo a casa con più biglie di quando ero partito, a volte con meno ma così è la vita già a quella età ed i pomeriggi passavano.

Ricordo che invece quella volta era di mattina molto presto, fai conto intorno alle nove e tanto fa. Essendo di mattina dovevamo essere in estate in vacanza. Ai giardinetti ero da solo, in febbrile attesa che arrivasse qualche concorrente. Ne arrivò uno che avevo imparato a diffidare perché era una mezza teppa. Non aveva biglie quindi era tagliato fuori. Mi propose di giocare così , tanto per divertimento, e allora gliene prestai una delle mie. Dopo un po’, magari qualche gara l’avevo vinta io e qualche altra lui ma la “sua” biglia era sempre comunque di mia proprietà, mi propose, “per rendere la sfida più invitante” mi disse, di giocare sul serio con questa regola: se lui avesse vinto tre gare di fila allora la biglia sarebbe diventava sua a tutti gli effetti. Ovviamente me la vinse sennò non sarei qui a raccontarla.

Ma adesso che era legittimo proprietario di una biglia potevamo, disse, continuare con le regole consuete. Accettai e giocammo e me ne vinse una decina. Dopo un po’ mi disse “va be’, adesso devo andare, ciao e grazie”. Lo vidi allontanarsi con le mie biglie mentre ripercorrevo mentalmente tutti i passi logici che erano intercorsi perché diventassero sue. Penso sia stata per me un’ottima lezione, non dico proprio sul momento perché bruciava, intendo in seguito, parecchio in seguito.

La morale che ci vedo è che le convenzioni, gli accordi, le regole, non sono intrinseche alla realtà ma ne sono una sovrastruttura più o meno concordata.

 

 

 

 

 

20120816 L’incongruità degli alberi sui terrazzi dei grattacieli (parte 1)

Leave a comment
fuffa

Per lungo tempo vedendo alberi sui terrazzi di palazzi ho pensato fossero incongrui.

Innaturali.

Non avrebbero mai potuto diventare bosco, diventare foresta; quale futuro potevano dare ai loro “figli”?

Il loro futuro era vivere fin quando non li avrebbero tolti perché magari, contro ogni logica, troppo cresciuti o perché il condominio se ne era lamentato. Al più, ci potevano stare fin tanto dura il palazzo.

Tutto considerato una vita effimera, quasi inutile da vivere.

Ne parlavo con Luana tempo fa e cercavo di spiegarle che erano come dire, sprecati.

Non so dire quale filo logico nelle parole delle sue considerazioni mi hanno fatto rivedere questo pensiero.

In fondo può essere una vita piena anche quella.

Ho pensato alle formiche che magari scorrono su e giù per il loro tronco come tante volte le ho viste fare, fin giù, “a terra”.

In fondo, ho pensato, per quelle formiche quello è tutto il loro mondo, non sanno che ce n’è uno sconfinato fuori da quel terrazzo, da quel palazzo.

Ma il pensiero è andato oltre. Capita talvolta anche a noi di considerare i nostri piccoli contorni come fossero tutto il mondo e spesso ci “abbasta” anche.

Ricordo una volta mio nonno mi disse che suo padre (o più probabilmente suo nonno) non si era mai mosso dal paese in cui era nato e poi morto, tutta una vita vissuta attorno ad un paese, Cogoleto. La cosa mi angosciava, aveva un che di soffocante.

Ancora oggi percepisco quel senso di costrizione, quasi un non avere vie di fuga, le volte che visito un’isola. Mi è capitato anche in Sardegna e di certo non è un’isoletta; eppure anche lì mi sento limitato; una volta di nuovo sul continente, “a terra”, mi sento libero di poter fare delle scelte.

E non mi sento circoscritto benché il continente europeo, a ben vedere, è pur sempre un’isola…

Quanto misura “abbastanza spazio”?

Ebbene, adesso penso invece che, dopotutto, anche noi siamo alberi cresciuti su tetti di grattacieli; effimera la nostra vita così come lo è la loro, se anche a molti di noi è dato di sapere che esiste tutto un mondo oltre, alla fin fine o perché costretti o per abitudine o per scelta mettiamo le radici in un vaso e lì viviamo. Quanto deve essere grande il nostro orizzonte perché non ci si senta su un’isola?

Chissà, forse un domani un qualcuno con un senso di costrizione (moooolto) più forte del mio si sentirà limitato di poter vivere solo sulla Terra o magari anche solo nella nostra galassia; si sentirà su un’isola perché magari non potrà girare per l’intero universo. Ma per andare poi dove, mi chiedo?

to be continued… Molte le contro-riflessioni e gli spunti che ‘sti benedetti alberi hanno nella mia mente generato, come corsi secondari di un piccolo torrente. Secondari ma che ti ispirano ad esplorarli, chissà a quali strani e bellissimi anfratti ti porteranno.

 

Le foto sono state scattate a New York nel settembre 2010. Solo un caso, lì avevo la macchina fotografica, da buon turista; solo che a parte i monumenti prendo scatti anche di cose che so poi, con calma, mi aiuteranno a fissare sfuggenti pensieri.

P.s. Ho ripreso questo post da un altro mio blog e gli ho messo la data del giorno nel quale l’ho postato allora. Mi sa che permarrà nello stato  di “to be continued” ma mi garbava metterlo anche qui.

 

20190530 La casa di campagna

Leave a comment
fuffa

Vai, abbiamo preso anche il secondo caffè e adesso scrivo un po’ di fuffa anche con la stilografica con l’inchiostro blu perché questa scorre bene.

Sono un po’ fermo con le idee/progetti che mi ero prefigurato da quando non lavoro più. Se provo a ricordare l’unico che ha avuto un suo qualche compimento è stato quello del gazebo in giardino. Il giardino però è ben lontano dall’essere completato ed inoltre il gazebo stesso non lo utilizzo per quello che avevo pensato, cioè una bolla fuori dal tempo. Poi, se vogliamo andare a vedere, al più ho dato una mano a Luana a risistemare la sala che adesso è di nuovo “abitabile”. Per il momento di spostare i mobili e soprattutto imbiancare non se ne parla nemmeno. In un certo senso, dopo tanti anni, siamo semplicemente tornati alla normalità e ci sembra un successone; tra qualche tempo ci saremo scordati il casino che c’era.

Poi: il muschio che ho spennellato sui bordi dei cordoli di recinzione il 28 febbraio scorso manco per il cazzo che è venuto fuori; forse ho messo poco muschio, forse poco zucchero, lo yogurt non gli andava bene, fatto è che niente c’era niente c’è adesso. Sul versante delle tavolette di cartapesta sono fermo perché ho bruciato l’immersore di Luana. È vero che ho immaginato soluzioni alternative ma andrebbero trovate giù in garage che andrebbe prima risistemato per tornare agibile. Soprattutto ho visto che non so disegnare/dipingere e questo ha spento parecchio del mio entusiasmo verso la carta pesta. Un ipotetico scenario che mi tornerebbe utile è questo: vincere un sacco sacco di soldi e quando dico un sacco intendo un sacco sproporzionato.

A parte le cose di aiuto a certe persone che potrei fare con questi soldi, potrei comprare una casa in campagna con un bel po’ di terreno e magari anche un pezzo di bosco. Poi potrei assumere delle persone per sistemare casa mia ed intanto abitare in quella di campagna; la casa di campagna non dovrebbe essere grandissima, non sono più interessato ad avere un castello di centinaia di stanze. Però certo delle stanze in più rispetto a quelle che ho a casa di mia (una novantina di metri quadri, e detta l’onesta verità, sufficienti). Non so, in una mettiamo in pratica tutti gli armadi, una stanza armadio, con tanti bei ripiani con tutte le cose a vista; fai il conto le camicie, i maglioncini, i giubbotti, le scarpe e le altre cose che ci vogliono, lenzuola, coperte, federe, cose così. Un’altra stanza diventa la lavanderia per Luana che le piacerebbe averne una; un paio di stanze sarebbero semplicemente delle camere per gli ospiti e poi to’, ce ne posso avere un’altra in più o anche due con destinazione da definirsi; nel più ci sta il meno.

Dopo di che le solite necessarie: il cucinotto (che si può estendere a cucina con il piano cottura ad isola come piacerebbe a Luana), il soggiorno dove si pranza; la sala, che può allargarsi a salone ed eventualmente a salone one one, tanto di spazio ce n’è, fai conto una roba tipo Matrix. Ci metterei le librerie, il divano con o senza le poltrone che m’interessano il giusto e soprattutto le nostre due scrivanie con i nostri rispettivi computer. Al più, ma se proprio ne ho voglia, uno schermo per vedere dei film le sere che ci andasse di farlo. Sono 12 o 13 o di più anni, non riusciamo a ricordarlo bene, che io e Luana abbiamo tolto la tv da casa e ci troviamo benissimo e non abbiamo certo intenzione di rimetterla; lo schermo mi servirebbe per vedere un film da Netflix oppure uno piratato (Cazzo me ne frega a me?); per le esigenze che abbiamo e per l’utilizzo che ne faremmo basterebbe anche un telo che si srotola e poi si arrotola e scompare nel soffitto tipo le tende per le diapositive o i proiettori (se c’è ancora qualcuno che possa comprendere l’esempio).

E poi ovviamente la nostra camera da letto che a questo punto non sarebbe più soffocata. Già che sono lì a costruire, in camera nostra ci sarebbe una porta finestra che dà su un ampio terrazzo a semicerchio (come quello dove siamo stati oltre 25 anni fa per i nostri 10 anni di matrimonio. Era un castello in Irlanda vicino a Dublino). Una semplice ringhiera in ferro e poi ci vuole per forza una qualche struttura di copertura, una tettoia, un gazebo, un qualcosa insomma che ti ripari dal troppo sole o dalla pioggia. Sarebbe bello stare su quel terrazzo a fare colazione quelle due o tre volte prima che ti rompi i coglioni a portare da giù (la cucina è al piano terra, le camere al piano superiore) la colazione che tanto nel frattempo si è raffreddata…

Senz’altro ci posso andare alla mattina a fumare la prima sigaretta della giornata (se fumo ancora, sono già un paio d’anni che smetto definitivamente ogni primo del mese) e caso mai ci si va a leggere se c’è un po’ di solicchio d’inverno o del fresco quando fa caldo.

Un bel bagno in comune per le stanze da letto con una bella doccia (la vasca non ci interessa, anche nella casa reale l’abbiamo tolta) ed un bagno più modesto a pianterreno per non star a fare le scale quando sei giù. Ci vuole ovviamente un ripostiglio ampio il giusto per le scorte e le altre cose che in una casa ci vogliono. Direi che con gli interni sarei a posto. La casa è ovviamente in mezzo ad un terreno. Ora non so bene se sistemare il giardino sul davanti o sul retro della casa, ma mi sa più sul retro, quello che va verso la collinetta boschiva.  Nel giardino ci sono degli alberi, probabilmente degli aceri che così si fa prima e l’erba è quella dei prati. Assolutamente no all’inglese, quell’erba finta che nemmeno i grilli riescono a sopportare.

Sotto ad uno degli alberi del giardino, e rifai conto che sia appunto un acero, ci va il suo divanetto con un tavolino, tipo Ikea che va benissimo, quelli tipo tutti intrecciati ed un paio di poltroncine e comunque mi ci vuole anche un tavolino normale tipo da bar e la sua sedia se voglio prendere degli appunti in grazia di Dio.

Subito dopo il giardino, magari separato da una bella staccionata in legno ma non di quelle tanto elaborate, il pezzo (piccolo) dedicato ad orto con la sua debita casetta per riporre gli attrezzi ed ovviamente con la pila dell’acqua per dare da bere alle piante. Dopo l’orto c’è un po’ di terreno incolto per arrivare al bosco. Il bosco cresce su una collinetta o meglio ancora un gruppo di collinette e non è che sia grandissimo, però sufficiente per trovare il piacere di una breve passeggiata. Qualche dosso e qualche versante nasconde la casa e ti sembra di essere chissà dove. Qui e là delle comode panchine. Vorrei anche piazzarci una torretta tipo quelle dei cacciatori sopraelevate, direi più un gazebo su quattro zampe, una specie di casetta sulle palafitte come quelle dei pescatori di retone. Voglio dire, giacché sei lì a spendere fai le cose a modo. Comunque questa roba la vediamo più avanti, nel prosieguo della sistemazione della casetta di campagna. Perché ovviamente la residenza la mantengo in questa attuale. Abito in un condominio un po’ riposto, contiguo con il centro del paese. Siamo otto famiglie e grosso modo ognuno fa i fatti suoi. Questo è un bene per tante cose ed ha i suoi piccoli contro per altre. Per esempio il cortile condominiale è coltivato ad erbacce e la pavimentazione, inesistente, è terraccia indurita sulla quale anni fa versammo un camion di ghiaia che con il tempo e le ruote delle macchine si è pian piano trasferito sui bordi in modo da avere a disposizione ampie pozzanghere quando piove. Dal cortile condominiale si accede alla striscia di terreno parallela alla casa, profonda un 5 m circa e suddivisa in sette pezzi grosso modo larghi dai sei agli otto metri di altrettanti condomini. L’ottavo condomino, uno dei due a pianterreno, il suo pezzo ce l’ha già inglobato nel suo giardino privato. Tutte queste porzione di terreno una volta erano coltivati ad orto,  per un po’ anche il mio. In realtà tutti gli altri erano dei pensionati che facevano a gara a tirare fuori meraviglie dei loro scarsi metri quadri. Io ero giovane, appena sposato, e lo coltivavo più per sollecitazione che per naturale inclinazione. Uno alla volta pensionati se ne sono andati. I nuovi condomini sono tutti più giovani, qualcuno con una vita più difficile perché magari single con figlio oppure single di ritorno con figli e senza lavoro. In breve la striscia è una selva di ligustri e rampicanti con qualche olivo mai più potato e che ora svetta ad  arrivare  al secondo piano. Quando è stagione la raccolta delle olive la posso fare sul ramo che quasi sbatte alla mia finestra di camera al primo piano. L’unico pezzo con una parvenza di civilizzazione è il mio dove, sul terreno di pietrisco riportato quando finì la mia stagione di agricoltore, ho messo l’anno scorso un gazebo preso all’Ikea. E questo è un utile indicatore sullo stato delle cose.

Ovviamente ci sono altri problemi tipo i terrazzi da rifare e le grondaie e cose così. Ma facciamo tutti allegramente gli gnorri, l’amministratore del condominio è esterno, abita in città, prende poco, interviene con i suoi tempi quando lo chiamiamo e via andare. Fortunatamente non ci abita nessun avvocato se no sarebbero cazzi! Nel condominio, suddivisi in tre appartamenti ci sono però tre adolescenti e due bambini una addirittura in età prescolare; non si sa mai che indirizzo prenderà la loro vita. Li tengo d’occhio per quanto possa servire. Ma torniamo a noi.

La casa di campagna non sarebbe completa se non ci fosse un piccolo edificio in muratura (metti un ex fienile o una roba del genere) dove mettere un banco da lavoro per dare due martellate a qualcosa o segare due legni per fare delle piccole rappresentazioni di mobili, fai conto uno scaffale o un ripiano, cose così, facili da buttare poi in un falò improvvisato.

Il pezzo forte sarebbe, quello sì roba da ricchi, una sauna con la sua bella doccia ben piastrellata ed il suo spazio all’esterno, riposto agli sguardi ma dotato di sdraio per mettersi lì a decantare; in realtà a me piacciono più i bagni turchi ma mi diventa troppo complicato installarne uno soddisfacente in un ex fienile. Una cosa che non mi interessa assolutamente è la piscina, le ho sempre trovate così artificiali da perdere il gusto di farci il bagno dentro. Ecco, se proprio ci deve essere qualcosa, allora un laghetto di pochissimi metri quadri per mettercisi a sedere a fare due chiacchiere, magari con due rane che ci sono venute a fare villeggiatura. Comunque una semplice doccia a soffione, quelle delle spiagge per intenderci, messa da una qualche parte riposta del giardino con la sua base di tavolette di legno per rinfrescarsi nei pomeriggi estivi quella ci va messa per forza!

Un lato o uno spazio dell’ex fienile è dedicato per tenere al coperto l’auto e le biciclette e la vespa d’epoca; se di auto ce ne stanno comode due è meglio, per via degli ospiti. E per quella volta che vengono un po’ di amici e le auto totali sono più di due vorrà dire che le eccedenti le metteremo sul prato davanti casa, e che cazzo, uno poi fa di necessità virtù, l’importante è stare in compagnia!

Va be’, mi sembra che posso concludere qui. Tra l’altro sono le 12:34 in questo momento e sarebbe anche da andare verso casa. Mi ha mandato prima Marco un whatsapp per dirmi che il quadro è pronto, una foto di famiglia stampata su tela 50 x 70 per mio figlio. Ce l’ha chiesta come regalo per i suoi trent’anni. Adesso ne ha 31 da quasi due mesi…

Nel pomeriggio andiamo quindi a ritirarlo a XX, il paesino sempre in provincia ma distante una buona mezz’ora da dove abitiamo. Bon Basta chiuso.